Lavorare nella Cooperazione Internazionale. I consigli di un HR manager
Diritto alle cure e alla salute per tutti. Anche per le persone che vivono nelle aree più svantaggiate del mondo. Da questo presupposto, nel 1968 un gruppo di medici torinesi ha fondato il Comitato Collaborazione Medica (CCM).
Oggi il CCM è un’organizzazione non governativa, con progetti nel Corno d’Africa, nei quali si occupa di portare assistenza sanitaria, cultura della salute, campagne di prevenzione e formazione.
Ma quali sono le figure professionali più ricercate, oltre ai medici volontari che partecipano ai progetti di cooperazione?
Per conoscere meglio le varie professionalità che operano nel settore abbiamo parlato con Federica Morra, HR manager di CCM.
Ciao Federica. Dalla tua esperienza in CCM, quali sono le figure più richieste?
Se parliamo di CCM le figure preponderanti per l’area internazionale sono i coordinatori di progetto. Si tratta di persone alle quali vengono affidati il coordinamento e l’implementazione dei progetti nei vari Paesi, con responsabilità amministrativa e di gestione dei partenariati e delle relazioni con istituzioni e donatori del progetto che gestiscono.
Poi ci sono il rappresentante Paese. Semplificando potremmo definirli una sorta di amministratori delegati del Paese. Sono i supervisori dei capi progetto e coordinatori, con responsabilità importanti di gestione di tutti i coordinatori dei progetti e del loro operato, della gestione finanziaria del Paese e di tutti i rapporti con Istituzioni e donatori. Hanno il compito di sviluppare il Paese creando e valutando opportunità di progettazioni e finanziamenti.
Abbiamo poi figure più tecniche, come l’esperto sanitario e l’amministratore Paese. E i logisti, che si occupano dell’approvvigionamento e degli spostamenti. Lavorano a stretto contatto con i fornitori e devono avere conoscenze molto approfondite del Paese in cui operano.
E in Italia quali professionalità troviamo?
Desk amministrativi. Sono i responsabili funzionali degli amministratori Paesi, devono recepire il budget complessivo del Paese e assicurarsi che sia tutto corretto. Inoltre ci sono i desk officer: sono coloro che di fatto supervisionano le attività dei vari rappresentanti Paese.
Inoltre, abbiamo un’area per il fundraising che va dalla raccolta fondi sugli individui fino alla gestione delle donazioni aziendali. E, ovviamente, un ufficio comunicazione.
Infine non dimentichiamo i progettisti: sono figure nuove, professionisti che si occupano di redigere i progetti. Si tratta di una figura nuova per Ccm, poiché i progetti sono scritti tanto in sede, quanto sul campo.
Si tratta di figure molto articolate e diverse tra loro, ma se volessimo tracciare delle skills comuni, quali sono quelle necessarie per lavorare nell’ambito della cooperazione internazionale?
Sicuramente bisogna partire da forti competenze di coordinamento e organizzazione. Tutti i professionisti che operano in questo campo, hanno a che fare sia con il coordinamento di un team che con rapporti istituzionali e con il territorio. Dal punto di vista organizzativo operiamo in contesti in cui bisogna tassativamente rispettare delle scadenze.
Infine sono importanti le capacità amministrative e di conoscenza delle regole dei vari donatori istituzionali.
E poi ci sono le competenze linguistiche…
Chiaramente. L’inglese è fondamentale, direi imprescindibile. Anche la conoscenza del francese è molto importante e per alcune zone del mondo il portoghese.
Se volessimo ridurre le figure professionali alla dicotomia junior/senior?
Si può fare, ma sarebbe una semplificazione non sempre applicabile. Per noi ad esempio questa categorizzazione non dipende esclusivamente dagli anni di attività sul campo. Immaginiamo un professionista con dieci anni di esperienza ma svolti esclusivamente in piccole organizzazioni, su progetti poco complessi e low budget. Non è detto che questa risorsa venga necessariamente classificata come profilo senior perché potrebbe rivelarsi non sufficientemente skillata per gestire progetti da 3 milioni euro.
Al contrario, chi invece ha già lavorato in grandi organizzazioni su progetti più strutturati ed articolati, anche se per periodi più brevi, può essere considerato un senior. Può sembrare banale ma come abbiamo visto molto dipende dalle singole situazioni.
Un altro aspetto da considerare è il Paese in cui il professionista opera. Uno stato in cui risulti più difficoltoso lavorare richiederà sicuramente di una risorsa più qualificata.
Ad un giovane che si approccia a questa carriera partendo da zero, che consigli daresti?
Gli direi di approfondire il suo reale interesse verso questa professione. Prima di lanciarsi in un master, che può anche essere molto costoso, gli direi di provare a conoscere questo mondo da vicino.
Ci sono diverse possibilità per i giovani, dal volontariato al Servizio Civile all’estero. Oppure degli stage formativi. In questo modo, può mettere in pratica quanto studiato sui libri imparando dai professionisti. E, soprattutto, capire se questo stile di vita è adatto a lui. Insomma, se realmente è ciò che vuole fare.
Capita infatti che persone iper-formate non riescano ad adattarsi a vivere in Africa per lunghi periodi. E quindi, per loro, è meglio una carriera in sede.
Bisogna provare a decostruire la visione romantica del cooperante, uno stile di vite troppo spesso associato a quello viaggiatore. Al contrario lavorare nella cooperazione è un lavoro molto duro che si svolge spesso in contesti difficili.
La formazione è importantissima, ma da sola non basta. Se si punta solo su quello, si rischia di venire risucchiati dalla competizione. Una volta messi nel bagaglio almeno un anno di esperienza sul campo, allora si può avere un’idea più chiara in quale ambito si vuole investire tempo e risorse per specializzarsi.
Ti senti di consigliare dei corsi specifici?
Consiglierei soprattutto corsi in lingua inglese. In Italia abbiamo diversi percorsi formativi molto professionalizzanti: ci sono i master della scuola ASVI Social Change di Roma oppure, per il lavoro in sede, quello in fundraising dell’Università di Bologna. Ma anche quelli all’estero, come, ad esempio, il Public Health di Londra.
In generale, consiglierei di esplorare corsi nelle grandi città italiane ed europee che offrono formazione mirata sul ciclo del progetto, sull’amministrazione del progetto e sulle regole dei vari donatori istituzionali.
Infine consiglierei di informarsi su tutto ciò che ha a che fare con la progettazione, l’amministrazione, la gestione del budget, la rendicontazione e principi di diritto dell’Unione Europea. Perché, ripeto, la cooperazione internazionale è anche questo.
Per quanto riguarda la risposta a una vacancy, puoi dare ai nostri lettori qualche consiglio nella redazione e l’invio del CV?
Innanzi tutto, eliminate il formato europeo: al di là del nome, lo usiamo solo noi italiani. Inoltre è dispersivo.
Cercate di riassumere tutto in massimo 3 pagine. Abbiamo una media di 500 candidature per ogni vacancy e il primo screening dipende da ciò che colpisce l’occhio del recruiter. Per questo è importante anche layout del CV: refusi, font, editing. Dice molto di una persona, della sua precisione e dell’impegno che ci mette in ogni sua attività.
Iniziate con i dati personali: dove vivete, telefono, collegamento al profilo Linkedin e account skype. Per quanto mi riguarda, la foto non la metterei, per motivi di privacy. Così come la data di nascita.
Poi c’è una scelta da fare: o si invia una lettera motivazionale, non superiore a una pagina, oppure si redige una presentazione della propria motivazione alla candidatura, all’inizio del CV, ma mai superiore alla mezza pagina. In questo spazio, bisogna spiegare perché ci si candida, perché proprio per quel determinato Paese e quel ruolo. Ma, attenzione, non deve essere una ripetizione del curriculum ma deve avere a che fare con ciò che si fa, sul perché si risponde alla vacancy e sui propri obiettivi. Questa parte deve essere cucita su misura dell’offerta di lavoro. Non usate modelli standard validi per ogni candidatura. Dovete dimostrare di essere realmente interessati a quella specifica posizione.
Lo stesso discorso vale per la formazione. Se avete frequentato numerosi master e corsi, selezionate quelli realmente attinenti e tenete solo i più importanti.
E al colloquio, cosa bisogna evitare?
Bisogna evitare di fare l’intervista a “proprio modo”. Le regole fondamentali di un colloquio sono: semplicità e concretezza.
Rilassatevi e seguite le domande dell’intervistatore. Non preparatevi un discorso su cui orientare la discussione. Ascoltate le domande e rispondete. Il racconto di voi, noi recruiter, lo conosciamo già: l’abbiamo letto.
Secondo aspetto, la curiosità. Fate domande attinenti all’organizzazione.
Terzo consiglio: arrivate preparati. Leggete attentamente il sito dell’organizzazione. Dimostrate interesse.
Quarta osservazione: siate professionali. Non parlate male dell’organizzazione per la quale state lavorando o quelle nelle quali avete operato in passato.
E infine, arrivate preparati sugli aspetti organizzativi. Se avete già un lavoro, informatevi su quanto sia il tempo di preavviso per le vostre eventuali dimissioni. E ipotizzate un range retributivo auspicato, soprattutto se siete dei professionisti già strutturati.